Lost & Found Podcast | S. 01 Ep. 00
La Grande Bellezza è un titolo decisamente singolare per un film che fa della decadenza il proprio filo conduttore e insieme la propria trama. Chissà, poi, se gli Americani lo hanno capito veramente quel film e quel suo regista, Paolo Sorrentino, intento a ringraziare Maradona dal predellino del Dolby Theatre di Hollywood, L.A., California, che gli darà lavoro per i prossimi 20 anni almeno. E l’immortalità per i restanti.
The Best Foreign Film of 2013, ovvero il vincitore del Premio Oscar come Miglior Film Straniero del 2013, parla essenzialmente della storia di Jep, uno yuppie alimentante e alimentato dalla Roma dei terrazzi, troppo ancorato agli anni ’80 per capire che abbiamo varcato il millennio. La sua storia è la storia dei vuoti della vita portati alla loro massima espressione: IL vuoto, un unico infinito e ininterrotto vuoto. Sono 40 anni che non scrive romanzi Jep, spiegandoci e spiegandosi che è alla ricerca della Grande Bellezza. In conclusione, pare trasparire che il romanzo che Jep tanto ricerca altro non è che la storia stessa del film, comunicando con una violenza assordante l’inesistenza della bellezza nel vuoto post-moderno. Come direbbe Jack nel capolavoro di J.J. Abrams Lost, seppur in altri contesti, si vive insieme e si muore soli.
Le scene capolavoro della pellicola riguardano l’arte, o meglio la morte dell’arte. Tutto è arte oggi, quindi nulla lo è più, diceva una volta un mio maestro, un po’ sconsolato. L’arte nell’era della morte dell’arte è una testata ad una colonna di pietra, una performance Abramovićiana, solo fatta 20 anni dopo. Vecchia. L’arte nell’era della morte dell’arte è una bambina che viene costretta ad affrontare i propri demoni contro un telo bianco. Per chi avesse letto la spettacolare biografia di Andre Agassi, il mostro (non sempre esteriore). Colpisci più forte.
Sorrentino fa sempre un discreto e peculiare uso dell’ipertesto cinematografico. Seppur non si possano considerare una successione, i riferimenti a Il Divo e This Must Be The Place sono evidenti. La maschera, la depressione e… Toni Servillo. Ma soprattutto quell’atmosfera di sottofondo, neanche troppo né sotto né fondo. In tutti e 3 i film i protagonisti parlano in modo pacato, quasi sottovoce, muovendo appena le labbra. È l’indifferenza distaccata con cui si vuole vedere, e far vedere, il mondo. Commentandolo. Piano.
C’è un solo triste vincitore morale: Verdone, o Romano se preferite. Romano è un fallito, ma un fallito di quelli riconosciuti. Non combina niente con le donne, ha una stanza in affitto in una casa per studenti. Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l’unico svago che ci resta per chi è diffidente verso il futuro. L’unico. Senza pioggia, agosto sta finendo, settembre non comincia e io sono così ordinario. Questo ci dice un Romano, di nome, nel tempo è diventato romano, di fatto. Poi un giorno si mette in scena, in teatro, e capisce. E se ne va. Roma mi ha molto deluso, conclude. Si ridesta dal torpore costruito sul nulla dei terrazzi romani e torna, torna a casa. Perché come rimarcherà anche La Santa più avanti, le radici sono importanti, motivando l’unico alimento, forse elemento, che consuma.
Quando La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar c’è chi è sceso in piazza, metaforicamente ma non troppo. L’Italia ha vinto. Ma questo film è molto più che italiano, è reale. C’è realmente da essere orgogliosi dell’Italia di Sorrentino? Orgoglio del Made In Italy, orgoglio del nulla.